Edizione n. di mercoledì 15 gennaio 2025

Ipazia e le sue amiche

I baci della vita

Parlare di leggerezza può essere fuorviante. E' subito da dire che leggerezza qui non significa facilità, nemmeno spensieratezza, bensì ariosità. Non si può non esserne presi. Accostandosi a Trilogia dei baci (farfalle Marsilio), si capta subito questa leggerezza speciale che si stende, si srotola anzi, secondo un approccio di scrittura capace di staccarsi senza essere distaccato, di commuoversi senza lacrimare. E' anche materna verso sé stessa - la sé stessa che narra - e verso la propria creatura - il romanzo - la scrittrice Gabriella Imperatori come riesce a essere chi abbia a lungo con calma girato la sabbia dentro il setaccio. La sensazione che si trae leggendo è analoga a quella che produce uno psicologo. Si entra nello studio, si cerca di tirar fuori i propri problemi; l' altro, se è bravo, sarà impercettibile, sarà lieve. Eppure, una volta a casa, scopriremo che nel nascosto nostro io-mondo è stato condotto un lavoro profondo e si è andati oltre tante staccionate autodifensive.
Veneziana che vive a Padova, giornalista, saggista, alle spalle testi teatrali, una guida sociologico-giuridica, più romanzi, Gabriella Imperatori usa i talenti dell'esperienza e quelli d'una creatività fluida. La parola è esatta ma non puntigliosa; il periodare è composito ma limpido; l' analisi è minuta, senza attanagliare. Così si è subito dentro il romanzo, che, partendo dalla giovinezza, indaga un tempo ampio, e accompagna la protagonista, studentessa in collegio, dall'epoca dei baci-non baci, a quella dei baci mendaci, fino alla maturità, quando avanzano i baci d'addio. Lei è Marina “la Rossa”; compagne di soggiorno e di speranze, di esami e di segretezze sono due amiche: Alessandra “la Pia” e Federica “la Longa”. Tutte e tre termineranno l' università durante gli anni Sessanta per seguire diramazioni anche forzate. Dalla famiglia, dalla socialità, dalle proprie stesse attese. Dapprima le vicende quotidiane danno spazio per restarsene in surplace, si bilanciano con la vita immaginata e desiderata; presto arriverà la realtà così com'è: e qualcosa muta, si sgretola. Le aspettative si vanno svuotando, l'amore appare sfuggente o sfuggito, la famiglia non è più culla. Con il salto di anni cambia il linguaggio, che ora è quello di una donna che riannoda i ricordi tra sé e la propria famiglia, l'Istria, il mare-lago (dall'evocatività di poetica), il senso del divenire nel divenire trasmesso (forse) dalla madre. In un fitto parlarsi, in un continuo ripercorrere e riaggiustare le tappe, e le soglie, Imperatori introduce uno dopo l'altro i suoi temi - la guerra, le etnie, l'emigrazione, il rapporto Nord-Sud - e li intreccia con altri più intimisti: le prevaricazioni, la solitudine, l'incomunicabilità, le maschere. Li affronta con introspettività femminile, non facendosene dominare, ma ispezionandoli e porgendoli a chi legge come rifranti da luce e acqua. Ne deriva un gioco di rimandi e sollecitazioni che sono una delle note dominanti e fascinose del romanzo. Intanto le stagioni passano, ne affiorano di nuove. Ma i posti, le genti che hanno dato o tolto vigore all'esistenza, anche le domande senza risposta, non lasciano la mente. Proprio per questo è possibile la pacificazione delle righe conclusive, dopo che la ciclicità ha completato con la morte il suo giro.
Elena Ciuti
--- Gabriella Imperatori, “Trilogia dei baci”, Marsilio Editore (2004), pagine 248.

8 Marzo: per non dimenticare

Sembra opportuno ricordare o far conoscere Elisabeth Cady Stanton (1815-1902), considerata la leader del primo movimento femminista statunitense, autrice della Dichiarazione dei Sentimenti, pronunciata ed approvata alla Convenzione sui Diritti delle Donne, passata alla storia come Convenzione di Seneca Falls (1848).
Sono sue queste parole, «Chi, vi chiedo, può prendere, osare prendere su di sé i diritti, i doveri, le responsabilità di un'altra anima umana?»
Parole che la storica Anna Rossi Doria, l'intellettuale più stimata ed influente nell'universo politico femminile negli anni '70-'90, recentemente scomparsa, volle stampate sulla copertina di uno dei suoi libri più noti “Le donne nella modernità”.
Come commento, a guisa di controcanto, riportiamo il contenuto di una poesia satirica sulle donne di Seneca Falls.

Si son fatte le idee di voler parlare di sé
e brandiscono la Bibbia e la penna.
Son salite sul rostro, quelle elfi-megere
e -orrendo- parlano agli uomini!
Senza sbiancare vengono davanti a noi
ad arringarci, dicono, a favore degli sciocchi.
La cultura delle nostre nonne consisteva un tempo
nello stender la tovaglia sulle loro tavole generose,
nel far girare la conocchia o lavare il pavimento
e nell'obbedire il volere dei loro Signori.
Adesso le signore possono ragionare, pensare e dibattere
tanto che l'obbedienza è fuori moda.

I nostri saggi hanno cercato invano di esorcizzare
i loro spiriti turbolenti:
è come avere a che fare con il mare che non ha catene
o come voler conquistare l'etere con la spada.
Come i diavoli di Milton si rialzano dopo ogni colpo
e con spirito invitto insultano il nemico...

Per ridere un po' ma anche per meditare...

Jolanda Leccese
della Società Italiana delle Letterate  

Varese, all’Ateneo dell’Insubria la memoria storica di Antonia Pozzi

Biblioteca personale e archivio con quaderni, libri fotografie, lettere raccolti nel Centro Internazionale Insubrico “Carlo Cattaneo” e “Giulio Preti”
Fabio Minazzi, Graziella Bernabò, suor Onorina Dino, Guido Agostoni
Pagine dall'Archivio

È sorto a Varese nella primavera del 2010 e ha già raccolto migliaia di volumi e una nutrita serie di archivi. Con l’arrivo del Fondo Pozzi, inaugurato il 29 gennaio, il Centro Internazionale Insubrico “Carlo Cattaneo” e “Giulio Preti” dell’ateneo dell'Insubria vanta ora un patrimonio archivistico e bibliotecario, che, secondo il suo direttore scientifico Fabio Minazzi, «assume un profilo di assoluta eccellenza ed unicità in ambito nazionale».
Manoscritti autografi, lettere, quaderni, fotografie e libri di Antonia Pozzi (Milano 1912-1938) sono stati donati dalla Congregazione Suore del Preziosissimo Sangue di Monza e sistemati nella neonata sede del Centro, inaugurata a fine 2014 nel Collegio Cattaneo, posto dentro il cuore del nuovo Campus di Bizzozero.
Alla presentazione sono intervenuti il rettore dell’Insubria, Alberto Coen Porisini, il professore Fabio Minazzi, suor Onorina Dino della Congregazione Suore del Preziosissimo Sangue e archivista storica della Pozzi, la studiosa della Pozzi Graziella Bernabò e il sindaco di Pasturo Guido Agostoni. Durante la cerimonia è stato illustrato il progetto culturale e civile “Adotta un Archivio”, che prevede anche donazioni libere.

POZZI E LA “SCUOLA DI MILANO”
Antonia Pozzi, come ha scritto Fulvio Papi, professore emerito dell’università di Pavia oltre che rinomato studioso della Pozzi, «dopo il ’34-’35, apparteneva, per studi e frequentazioni, a quel gruppo di giovani intelligenze filosofiche, poetiche e letterarie che oggi comunemente chiamiamo appunto Scuola di Milano». La sua origine risale agli anni Trenta del Novecento, quando intellettuali di varia attività si riunirono attorno al magistero del filosofo Antonio Banfi (1886–1957).
L’archivio di Antonia Pozzi comprende tutti i manoscritti autografi, le lettere, i quaderni, la produzione fotografica, unitamente alla sua biblioteca personale. «La Pozzi, ha dichiarato Minazzi, non fu solo una grande poetessa, ma anche una grande fotografa che ha intrecciato queste due sue passioni con il suo amore per la montagna, la natura e gli uomini colti nella quotidianità della loro vita».
La donazione del fondo al Centro Internazionale Insubrico ha una precisa ragione spiegata da Minazzi. «Il Centro, giunto al suo quinto anno di attività, dispone attualmente di circa diecimila volumi e di una quindicina di archivi, la maggior parte dei quali documentano proprio la storia della “scuola di Milano” nella quale si sono formati studiosi, filosofi e poeti come Giulio Preti, Daria Menicanti, Vittorio Sereni, Antonia Pozzi, Maria Corti, etc.».

ORIGINE DEL CENTRO INSUBRICO
Il Centro Internazionale Insubrico è nato grazie all’acquisizione di due straordinari fondi archivistici: il fondo delle carte autografe di Carlo Cattaneo dall’esilio luganese alla morte, donate dall’avvocato Guido Bersellini di Milano, e il fondo del filosofo pavese Giulio Preti, messo a disposizione da Fabio Minazzi.
Attorno a quest’asse si è aggiunta una serie di archivi concernenti la “Scuola di Milano”. Le acquisizioni spaziano dalle carte dell’Archivio segreto di Antonio Banfi (dal soggiorno berlinese d’inizio secolo fino alla morte) a tutto il Fondo archivistico di un filosofo di levatura europea come il pavese Giulio Preti (1911-1972). L’elenco comprende poi alcune carte inedite di altri eminenti allievi banfiani, come i poeti Vittorio Sereni (1913-1983) e Daria Menicanti (1914-1995), i filosofi Guido Morpurgo-Tagliabue (1907-1997) e Giovanni Vailati (1863-1909), e l’archivio del filosofo vivente Evandro Agazzi.

ARCHIVI E BIBLIOTECHE DEL CENTRO
Questi i principali fondi archivistici e bibliotecari finora pervenuti al Centro varesino:
*Archivio del filosofo e politico Carlo Cattaneo (1801-1869);
*Archivio del filosofo pavese Giulio Preti (1911-1972);
*Archivio segreto del filosofo Antonio Banfi (1886–1957);
*Archivio e Biblioteca della poetessa Antonia Pozzi (1912-1938);
*Biblioteca e Archivio della filosofa Aurelia Monti;
*Biblioteca e Archivio del filosofo Evandro Agazzi;
*Carte inedite del filosofo Giovanni Vailati (1863-1909);
*Carte inedite del poeta luinese Vittorio Sereni (1913-1983);
*Carte inedite del filosofo Guido Morpurgo-Tagliabue;
*Biblioteca ed Archivio del filosofo Bruno Widmar;
*Biblioteca ed Archivio della studiosa di estetica Clementina (Titti) Pozzi;
*Biblioteca del fisico Domenico Tullio Spinella;
*Archivio di cartolettere di vari esponenti della “scuola di Milano” banfiana;
*Biblioteca del filosofo Gabriele Scaramuzza;
*Archivio del filosofo Fulvio Papi;
*Archivio Storico del Territorio del Laghi Varesini.
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Nella foto (da sinistra): Fabio Minazzi, Graziella Bernabò, suor Onorina Dino, Guido Agostoni. 

Rose rosse per Franca Rame

Mercoledì 29 maggio si è spenta a Milano Franca Rame, attrice, scrittrice, nel 2006 anche senatrice per l'Idv, moglie del Premio Nobel Dario Fo e, soprattutto, donna in prima fila per le battaglie sociali e i gravi e difficili temi delle povertà, dell'emarginazione, della violenza, della sopraffazione.
«Chissà quante donne ci saranno ai miei funerali», aveva detto qualche tempo fa in un'intervista alla tv. L'aveva detto con la modestia che la contraddistingueva, ma pur consapevole dopo tanti anni spesi per gli altri della rete di associazionismo e individualità che aveva saputo attrarre, e spesso motivare nella solidarietà o nella reazione. Così è stato. Venerdì 31 maggio, dopo che la camera ardente allestita al Piccolo Teatro era rimasta aperta anche di notte per permettere a tutti l'omaggio, un'onda di donne è accorsa al commiato davanti al Teatro Strehler di Milano. Tutti quelle e quelli che hanno riconosciuto nella costanza di Franca Rame, e nel suo non risparmiarsi, non cedere, e anche non perdere fiducia, la speranza di un'etica possibile.
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Prima il sindaco di Milano Pisapia e il suo partecipe saluto, dopo Jacopo, che racconta una madre-donna così coraggiosa e prodiga da saper trasformare lo stupro subito da parte di un manipolo di neofascisti in parola e teatro; non tanto per elaborare il dolore proprio, quanto per raggiungere con quel suo mai sopito dolore altre donne, per smuovere coscienze e torpore. Dario Fo parla per ultimo. E la sua orazione è battito d'ali di un gabbiano che, volando attorno alla sua compagna fermata dal tempo ad altra Dimensione, smuova l'aria e propaghi vibrazioni nel vento e sul lago.
La sua narrazione dice il miracolo della creazione d'arte insieme, di una vita trascorsa per sessant'anni fianco a fianco, a tessere una tela quotidiana in cui l'una dall'altro non si sarebbero potuti distinguere, né scindere, eppure in cui ciascuno dei due è stato unico, diverso e inconfondibile.
Il testo, il teatro, gli ideali e le idee sono stati vita e sintesi del loro essere, per Rame e Fo, e come sintesi di teatro-vita si sono liberati nel commiato di Dario per Franca. Il quale ha offerto a una piazza colorata di fiori bianchi e rose e sciarpe e vesti rossi e piccoli, intimi riferimenti di comuni sentire – perchè così a lei sarebbe piaciuto – la recita/non recita di un'opera che la moglie stava componendo. In cui lei scrive – traendo spunto da rinvenuti documenti apocrifi – di un'Eva non nata dalla costola di Adamo bensì modellata dal Creatore per prima, che preferisce la scelta della morte avendo conosciuto la gioia e la festa e la ricchezza dell'amore invece che l'eternità senza sapere l'amore.
Recita ma non/recita, ancora una volta vita in scena, simbolo e sublimazione, sotto il sipario del cielo, dove due voci si fanno una.
Elena Ciuti

Nelle foto in basso:

1) L'ingresso del Piccolo Teatro di Milano dove è stata allestita la camera ardente e dove sono confluite anche il mattino dei funerali moltissime persone per unirsi al corteo e accompagnare verso Teatro Strehler, luogo del commiato di Dario Fo per la moglie.

2) La targa dell'Anpi all'ingresso del Piccolo di Milano. «Qui tra l'8 Settembre 1943 e il 25 Aprile 1945 hanno subito torture e trovato la morte centinaia di combattenti della libertà prigionieri dei fascisti. Il Piccolo Teatro ha fatto di questo edificio un centro ed un simbolo della rinascita culturale e della vita democratica di Milano. Anpi - Milano 10 aprile 1995».

3) e 4) Dario Fo esce a salutare e ringraziare la folla

5) Cartello di un gruppo di donne: «La miglior donna che ci ha rappresentate»

6) Si avvia il corteo. Con la sciarpa rossa, Jacopo Fo.

7) Teatro Strehler di primo mattino. Qui si svolgerà dopo le 11 il funerale laico di Franca Rame

8) Durante il commiato di Dario Fo

(Pubblichiamo in questa stessa pagina un articolo di Davide Rota dedicato a Franca Rame e Dario Fo apparso sul Corriere del Verbano del marzo 2002). 

«Tu m'hai lasciato questo, un bambinello », la Resistenza nelle parole di una donna

La figlia Giovanna ricorda Giuliana Gadola e "Il Capitano" Filippo Beltrami ucciso dai nazifascisti

A Gemonio vive ancora Giovanna, la figlia di Giuliana Gadola e dell’architetto Filippo Beltrami, trucidato dai nazifascisti insieme a Gaspare Pajetta e a undici partigiani nella battaglia di Megolo, nel febbraio 1944. La tragica vicenda, raccontata dalla madre nel libro “Il Capitano”, è stata traslata in una fiction cinematografica, recentemente presentata anche a Palazzo Verbania a Luino dal regista Vanni Vallino e dallo storico della Resistenza Mauro Begozzi. Un libro del quale Cesare Pavese ebbe a dire tra l’altro: «… è il primo di ispirazione partigiana, dove non s’acquatti la retorica». Significativa in proposito la testimonianza di Giovanna, rivolta al pubblico di Gemonio, in occasione della prima proiezione del film “Giuliana e il Capitano” nello scorso mese di aprile:
«Vi ringrazio di essere venuti per conoscere i miei genitori e il loro amore. Un amore di rara qualità, aperto al mondo, in cui ciascuno aiutava l'altro a essere se stesso, a realizzare la propria missione, a dare agli altri il meglio di sé. Questo loro reciproco modo di relazionarsi li ha portati pian piano, e non senza esitazioni, a decidere di entrare nella Resistenza e di dare il loro contributo a liberare il Paese dalla nube tetra e minacciosa che lo sovrastava.
Il film trae origine da un libro ("Il capitano") che mia madre ha scritto a Cogne, in Val d'Aosta, dove ci eravamo rifugiati dopo la morte di mio padre. Lì abbiamo passato un anno, dalla primavera del ‘44 alla liberazione, in una baita di montagna un po' fuori dal paese. Due donne, mia madre e una giovane trentina e tre bambini dai 7 anni ai 7 mesi.
Una poesia di mia madre descrive molto bene il suo stato d'animo in quel tempo.
Si intitola «La nostra storia».

Tu m'hai lasciato questo, un bambinello
di carne e pelo biondi come il miele.
Me lo porto in ispalla sui sentieri
in cerca d'uova da una grangia all'altra.

Se gli parlo di te, la nostra storia,
chiusa dall'insonnia in una casa
dove ogni notte mi sgretolo con te,
quella storia diventa una leggenda
e nell'aria pulita t'incorona.

Immaginiamoci la situazione: la giornata è finita, i bambini hanno fatto i compiti, hanno cenato, sono stati messi a letto sotto alti piumini d'oca. Viene riordinata la cucina, caricata la stufa, stabilite le incombenze per l'indomani, si spegne il parlottio dei bambini. Resta solo il borbottio dello stufa. Poi cala la notte, quella notte che mia madre non avrebbe mai voluto attraversare, che nessuno di noi vorrebbe attraversare, ma che prima o poi ci tocca.
Mia madre mi ha detto diverse volte che senza di noi si sarebbe buttata nelle azioni più rischiose della guerra partigiana a costo della sua vita. Dovendo restare con noi senza impazzire bisognava comunque interrompere la sequenza di quelle notti terribili. Ma come? Mia madre decise allora di scrivere la loro storia, per salvaguardarne la memoria. Le notti si trasformano in momenti di intenso lavoro, in cui mia madre deve per forza prendere le distanze dalla vicenda per riordinare i ricordi, per organizzare il materiale. Ed è la salvezza. Il dolore si trasforma in un atto creativo di grande importanza per se stessa, per noi figli, per mio padre che ritorna a vivere in quelle pagine.
La storia si fa leggenda.
Il manoscritto, avvolto in tela cerata, viene sepolto sotto un albero, in attesa di tempi migliori. Dissotterrato dopo la liberazione, inizia l'iter per essere pubblicato dalla casa editrice Gentile di Milano, nel febbraio del ‘46.
La nostra storia confluisce così nella storia collettiva della Resistenza, ma con un taglio particolare: è una donna che scrive, una donna il cui sguardo presta più attenzione alle emozioni, ai sentimenti, alle motivazioni, piuttosto che ai fatti d'arme.
Per finire vi invito a riflettere sulla frase del filosofo greco Sofocle: "Se una cosa è giusta, certo val meglio di una cosa saggia"... sulla quale i miei genitori hanno impostato la loro vita».
Un’opera quella di Giuliana Gadola che nell’edizione del 1964 ebbe l’onere di una postfazione del poeta Eugenio Montale, di Gianni Rodari e di Piero Calamandrei.
Emilio Rossi 

Ginevra, "Ferite a morte", il dramma del femminicidio in diretta dalle Nazioni Unite su tvsvizzera.it

Oltre un terzo della popolazione femminile mondiale subisce violenza fisica o sessuale, molto spesso per mano di un partner. Lo dice un rapporto delle Nazioni Unite.
Dopo avere fatto tappa all’ONU di New York, a Washington, Londra e Bruxelles, il progetto teatrale sul femminicidio scritto da Serena Dandini in collaborazione con Maura Misiti sarà mercoledì 26, alle 19, al Palazzo dell’ONU di Ginevra in occasione della venticinquesima sessione del Consiglio dei Diritti umani.
I monologhi portati in scena attingono dalla cronaca e da indagini giornalistiche per dare voce alle donne che hanno perso la vita per mano di un marito, di un compagno, di un amante o di un ex. L’evento teatrale, in cui numerose figure femminili molto conosciute dal grande pubblico entrano attraverso un immaginario racconto postumo delle vittime, vuole essere un’occasione di riflessione, un tentativo di coinvolgere l’opinione pubblica, i media e le istituzioni.
Prodotto da Mismaonda, lo spettacolo sarà in francese, inglese e italiano. Sul palco, insieme alle autrici, ci saranno, tra le altre, Navi Pillay (alto commissario delle Nazioni Unite per i Diritti umani); Carla Del Ponte (ex procuratore capo del Tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia e ora membro della Commissione
internazionale indipendente d’inchiesta per la Siria); Cécile Kyenge (portavoce nazionale della Rete Primo Marzo); Mimma Viglezio (scrittrice e creative consultant); Maria Grazia Cucinotta (attrice e modella); Petula Clark (cantante e attrice); Ada Marra (consigliera nazionale); Lara Gut (campionessa di sci alpino).
La serata sarà ripresa e diffusa dalla RSI (a cura del Dipartimento cultura e in collaborazione tecnica con RTS), che manderà in onda lo spettacolo in video streaming live sul sito tvsvizzera.it e su feriteamorte.it oltre che sul sito dell'ONU.  

"Le mani azzurre", il cielo dentro il tunnel

Le mani azzurre

E’ uscito, nello scorso gennaio, per i tipi dell’Editrice Tufani, il romanzo-racconto “Le mani azzurre”. L’autrice, che si cela sotto lo pseudonimo di Leti Loft, narra una storia di donne - in particolare di due di loro, Liana ed Ernesta - e la ambienta in un paese di lago.
Chiare indicazioni (piazza Risorgimento, alcuni negozi, il monumento di Garibaldi, la strada di Creva) sono espliciti riferimenti alla nostra realtà locale. Un paesaggio animato e umanizzato dalla felicità o dal dolore dei protagonisti: “Azzurra, tra i venti che imbarbariscono i monti e le faggete, tra i temporali estivi che scatenano sferzante freddo, compare, scompare, compare, scompare”. Ed ancora: “La luna fece un passo sul vetro dondolando come un’ostrica che si aggiusti bene nella sabbia, decorò il naso e la fronte della donna con una scia di luce”.
Leti Loft si addentra con straordinaria perspicacia nelle pieghe più recondite dell’animo umano, sondandone gli aspetti chiaroscurali, legati qui all’evolversi di una malattia, l’Alzheimer. La narrazione si dipana lungo una traiettoria che conduce verso l’irreversibile abisso dove i ricordi si aggrovigliano e si disperdono in un crepuscolo senza ritorno.
La forma del racconto appare la più appropriata a cogliere l’impossibilità dell’uomo di sottrarsi al suo destino, una sorta di tarlo racchiuso dentro di noi, una potenza disgregatrice contro la quale è inutile combattere. Solo l’umana pietà può essere l’olio che lenisce il dolore delle ferite. La Musa di riferimento dell’autrice può apparire la malinconia, ma è la malinconia delle cose. Attorno, l’ambiente provinciale di un paese di frontiera dove domina il senso del concreto e dell’efficienza ad ogni costo.
Liana, dopo le delusioni amorose che bruciano ancora sulla sua pelle, deve confrontarsi con un mondo ipocrita. Anche la perdita delle persone care, dei genitori, pesa sulle sue spalle come una morte lenta. Il suo stesso carattere però è un gran medico. Una speciale serenità interiore in parte la isola dalla realtà e in parte la sollecita ad affermarsi nel lavoro e nella generosità: quel tanto che basta per alleggerire il carico delle frustrazioni. Una tematica estremamente esposta al rischio di un pessimismo avvilente, che potrebbe scoraggiare il lettore, incline a percorsi più agevoli.
Improvvisamente, però, nel cuore del racconto, si aprono spiragli di “azzurro” - il colore dello spirito - che ripropongono i ricordi lieti di una fanciullezza, percepita come primigenia sorgente degli stili di vita dell’età matura. Ne è un esempio l’esilarante descrizione di una disavventura vissuta dall’io narrante, Emanuela, rimasta sospesa su un elicottero arancione e giallo, bloccato su un tentacolo di un polpo meccanico nel lunapark nei pressi del Baradello (sul Lario?).
Leti Loft dipinge la scena con dovizia di particolari che tuttavia non mortificano la fantasia, ma le restituiscono spazi sconfinati per un gioco senza regole precostituite. Una successione, una sovrapposizione di brevi vicende che costruiscono un caleidoscopio di umanità. Talvolta nei dialoghi risuona l’eco della schietta parlata lombarda, il gusto gergale, ricco di cadenze idiomatiche, non disgiunte da accenti popolareschi.
Si coglie talora, tra le righe, una sentenziosità che nasce da una profonda esperienza di vita: “La buona considerazione andava a quelle che si sposavano. Ma il settanta per cento di loro aveva l’obbligo implicito di diventare madre, altrimenti sarebbe stato bersaglio di preconcetti scaraventati sulle spalle da parentesse e parenti incapaci di farsi i fatti propri”.
Quello di Leti Loft è un inno alle donne ferite o affaticate, al rarefatto mondo delle acque dolci e alla poesia della vita cosi com’è, compresa l’accettazione consapevole della morte, nell’amenità di una visione ultraterrena che non rinuncia ad una sorridente lepidezza.
Un libro che affascina e che si legge in un batter d’occhio: due buoni motivi perché non manchi nelle nostre biblioteche domestiche.
Emilio Rossi 

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