Edizione n.13 di mercoledì 17 aprile 2024

recensioni

Donne che non poterono ballare e sciogliere i capelli

In libreria Manuela Bonfanti e il suo "La lettera G", romanzo sulla condizione femminile nel secolo scorso
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«Acconciò i capelli perché così voleva il padrone»; «fin da piccola le era stata insegnata la fatica»; «gli serviva solo una che lavorava bene»; «sognava di sciogliere i capelli» al contrario «sarebbe andata la sua vita con i capelli raccolti»; «a undici anni Gina era già al lavoro». Eccola che appare, Gina, fin dalle parole iniziali del romanzo. Giovane donna, vive in un villaggio che non si dice dove sia né che nome abbia. Lei potrebbe chiamarsi Regina, e ballare, come ama, sentire musica, come ama, persino studiare. Invece alle soglie dei trent'anni già si sente "zitella" perché così l'humus che la circonda la induce a pensarsi, non scavalca il limite dei sogni a occhi aperti, tanto meno una quotidianità fondata sull'accudimento degli altri, a cominciare dalla famiglia d'origine, sull'accettazione di giorni e cicli precostituiti.
L'hanno indirizzata a quel modo il mondo che ha attorno e la madre, inespressa personalità che non riesce a trasferire alle figlie se non quanto da lei stessa subito. Un modello materno che ritiene le figlie «nove inutili femmine», qualche sberla «il prezzo da pagare per avere un marito» e che in particolare per Gina voleva «un uomo, uno che la domasse e le indicasse il suo ruolo». Pensa questo, la madre, rammaricandosi, per sé stessa, di aver generato, sì, molti figli ma non un numero sufficiente a garantirsi l'ambito premio negli anni Trenta dal regime attribuito alle famiglie numerose.
Parte quasi blando “La lettera G”, romanzo di Manuela Bonfanti pubblicato da Luciana Tufani Editrice. Snocciola i passi di vite scialbe, nate da vite scialbe e di sacrificio, chiuse in luoghi comuni e deprivazioni sentimentali, costruite su carenze e assuefazioni che si ritrasmetteranno nelle generazioni successive.
L'autrice è alla prima prova come romanziera, pur essendo esperta di scrittura. Svizzera, ha studiato tra Ginevra, Londra e la Germania, ha insegnato, ha operato nel marketing giornalistico e partecipato a un progetto di formazione per i Paesi in via di sviluppo. Vive ora in Francia e a lei si devono articoli, racconti e il reportage di viaggio plurilingue “Reami del silenzio”.
La storia italiana che con “La lettera G” - "G" come Gina, come marcatura, ineluttabile - racconta, spesso interloquendo direttamente con il lettore, parte dal 1934 e giunge al 2005. E' centrata su quel femminile che si personifica in immediata immagine e tutto il resto parrebbe sfondo, anch'esso blando. Blando non è, al contrario. Che tutto sia normalità ci induce a crederlo lo stile della scrittura, impegnata a non caricare di aggressività alcuna scena o alcun vocabolo. E' crudele in realtà ciò che avviene, perché costante è la mancanza di libera scelta. Proprio il linguaggio dell'autrice scivola veloce nella mente, vi impianta situazioni chiare e parrebbe di prevedere come andranno a finire. Invece il testo d'improvviso si rovescia, sovverte quanto si dava per noto, entra a gamba tesa nella pace di una lettura di analisi e riflessione, quasi volta verso la sociologia. Il ritmo "blando" viene abbandonato, in poche righe di corsivo, attraverso il dialogo con un'entità che ha corpo ma potrebbe essere anche solo spiritualità, un'altra diventa la voce di Gina, un'altra la sua coscienza, sanguinante l'angustia che la domina e la dispera. La ferocia è ora in campo e accompagnerà fino al termine del romanzo il quale, in un'operazione tematica e strutturale che continuerà a montare e smontare i retroscena sentimentali e psicologici della protagonista, nelle ultime pagine sovvertirà una volta ancora ciò che ci si attendeva e riconsegna a una nuova modulazione e interpretazione.
Al di là della scelta stilistica e della compostezza lessicale utilizzata, il testo è un percorso che non arringa. Semplicemente dice le condizioni di oppressione sociale e culturale che rappresentarono la società nello scorso secolo, mostra il confluire verso la rassegnazione, l'accettare un «destino», il deporre i sogni, il farsi attraverso la rinuncia da sé violenza. Vittime di operazioni di spersonalizzazione sono soprattutto le donne, ma anche gli uomini non sono esenti da prigionie in queste pagine.
L'esempio più evidente è il marito della protagonista, scoloratosi tra semine, raccolti, gerle e delusioni, cui non viene mai detto «grazie» nel caso si sforzi di un piccolo gesto di condivisione, che non sa riconoscere il proprio padre perché tra loro si è interposto il tempo di guerra e che mai si è sentito amato o ha provato l'ebbrezza di uno slancio. Schiacciato anch'egli da ciò che altri gli hanno inoculato, incapace di gioire persino per la nascita dell'ennesima figlia tanto da non andare a registrarla impedendole di conseguenza di sapere l'esatto giorno di compleanno, se dapprima appare opaco e dominante, alla fine non raccoglie compassione ma almeno la sospensione del giudizio. Il comporsi di tanti mali, o disfunzioni, che in molti casi ancora appartengono al presente appaiono in “La lettera G” senza mezze misure. Leggere accompagna in una utile rivisitazione tematica e temporale. Farlo potrà giovare soprattutto alle recenti generazioni perché meglio capiscano da dove provengono certi permeanti archetipi e i meccanismi psicologici e sociali in cui tuttora ci si imbatte, con cui a volte ci si scontra.
Elena Ciuti 

--- Manuela Bonfanti, "La lettera G", Luciana Tufani Editrice, 208 pp, 13 euro

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